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Dopo la laurea allo Iulm e un master in
direzione aziendale,
Vittorio Montieri
ha attraversato il campo della comuni-
cazione “coast to coast”. Ha ricoperto
ruoli manageriali in azienda, in agenzia
di pubblicità e in qualità di consulente.
Come giornalista, ha collaborato con
testate di ogni tipo - da quelle eco-
nomico-finanziarie fino ai settimanali
femminili - e con la Rai, per la quale
ha condotto anche il progetto di un mu-
seo della multimedialità. E’ docente di
Comunicazione Pubblicitaria e di Pro-
mozione d’Immagine alle Università di
Padova e di Bergamo. Ha scritto sag-
gi e tenuto lezioni a Madrid, ai master
Cuoa, Professionaldatagest e ICE-Po-
litecnico di Milano, per l’Associazione
Italiana Comunicazione Pubblica e per
la Comunità Europea. Ma la sua mag-
giore soddisfazione sono gli oltre 500
ex-studenti che popolano la fan page
su Facebook.
-Perché orafi e gioiellieri fanno poca pubblicità?
La prima cosa che mi viene in mente è che non è più così vero, considerato
soprattutto che il gioiello non è un prodotto di largo consumo e che di fatto si
rivolge a metà della popolazione: 70 milioni di euro annui e oltre 400 inserzio-
nisti non sono pochi.
-Quanto bisogna investire perché una campagna televisiva funzioni?
Questa è la classica domanda da un milione di dollari, che è poi grosso modo
la cifra necessaria per farsi notare con un paio di settimane di campagna. Di-
verso è quando si voglia costruire un brand: con 5 milioni di euro ci si può fare
un nome sufficientemente riconosciuto e popolare. I soldi però non sono tutto e
quanto una campagna funziona è in funzione anche dei contenuti del messag-
gio. A parità di budget una campagna può essere fino a cinque-dieci volte più
o meno efficace, a seconda di come è realizzata. Questo dimostra che le cifre
sono aleatorie e che la risposta più corretta è come sempre: “dipende…”.
-Comarketing e collaborazioni tra produttore e negoziante sono alternati-
ve valide alla campagna pubblicitaria tradizionale?
Sono valide ma non sono alternative, nel senso che non possono sostituirla.
Possono essere utili se la marca si è fatta le ossa altrove, cioè se è già una
marca.
-Consiglierebbe a una marca di gioielli di ingaggiare un testimonial?
Sì, se non lo facessero quasi tutti. Comunque resta una scorciatoia per la ce-
lebrità. Visto che è un costo in più, l’importante è che il rapporto sia costante,
l’investimento consistente e il personaggio credibile, che incarni un tipo di per-
sona che sceglierebbe quel prodotto indipendentemente dal fatto di essere
stata pagata per indossarlo.
-Non c’è il rischio che il pubblico si ricordi più della celebrità che del
marchio?
C’è eccome, test scientifici lo dimostrano. Ma se ci sono le premesse che ho
appena detto può valere la pena correrlo. E poi il vip fa sempre notizia, cioè
pubblicità gratis, e si può sfoggiare nelle occasioni mondane.
-C’è molta convenienza a “vestire” i protagonisti di talk show e fiction
televisive?
Come dire di no in un mercato che è stato baciato da Colazione da Tiffany,
un film capace di costruire un capitale d’immagine che anni di marketing non
potranno mai eguagliare? Anche qui, però, la cosa ha senso solo se il prodotto
è riconoscibile e la relazione con il programma è continuativa.
-L’ultimo grido della comunicazione nel settore?
Forse “aargh”, o un altro grido di disperazione. Certo è che le novità nella co-
municazione riguardano prevalentemente l’ambito di internet, che mal si con-
cilia con un prodotto materiale come il gioiello, e i social network, che mal si
adattano a un target non così giovane, e forme di comunicazione “non conven-
zionale”, poco idonee a un prodotto piuttosto convenzionale.
-
Ha qualcosa da rimproverare alle agenzie di comunicazione che, come
quella di Annalisa Fontana, operano nel settore?
Per quella che è la mia esperienza sinceramente no, e men che meno ad
agenzie esperte come quella di Annalisa Fontana, dalla quale c’è sempre da
imparare. Piuttosto, se le aziende clienti fossero un po’ più disposte ad ascol-
tare e un po’ meno capricciose…
VITTORIO MONTIERI
VITTORIO MONTIERI
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